Salario minimo I
Estratto dalla trasmissione " DI NUOVO?" del 14 agosto 2023
L'opinione di Filippo Burla sul salario minimo.
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Salario minimo II
Estratto dalla trasmissione " DI NUOVO?" del 14 agosto 2023
L'opinione di Musso sul salario minimo.
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CA SITI D'ACQUA IDDA
Trasmissione del 24 luglio 2023
"Dei circa 100 comuni coinvolti dall’alluvione che ha devastato un’ampia area dell’Emilia-Romagna, ce ne sono alcuni, come Conselice, paese di circa 9 mila abitanti della provincia di Ravenna, in cui non si riesce ad allontanare l'acqua stagnante e la paura adesso è per possibili rischi sanitari e altri come Casola Valsenio, sempre nel ravennate, o Monterenzio, in provincia di Bologna, che sono rimasti quasi completamente isolati a causa delle frane.
Nelle province più colpite sono caduti in poche ore tra i 100 e gli oltre 200mm di pioggia, un quantitativo che solitamente viene raggiunto in diversi mesi. Le precipitazioni torrenziali cominciate nella mattinata del 16 maggio hanno inoltre insistito in un’area in cui i terreni erano già saturi di acqua perché, dopo un lunghissimo periodo di siccità, tra l’1 e il 3 maggio erano stati interessati da una precedente forte ondata di maltempo, con piogge che anche in quel caso erano state particolarmente consistenti.
Di fatto quindi si è trattato di due precipitazioni definibili come eventi estremi per intensità e quantitativi di pioggia caduti. Il grande salto di scala, come sottolineato da diversi esperti, è stato però che non si erano mai verificati due eventi di tale portata in un arco di tempo così ravvicinato.
Parlando in termini generali l'Italia è più esposta di molti paesi europei al rischio alluvioni per via del suo peculiare intreccio di caratteristiche meteo-climatiche, topografiche, morfologiche e geologiche, nel quale rientra anche il fatto che in caso di esondazioni l’acqua ha poco spazio per defluire. La spinta verso una forte espansione dei centri abitati e delle aree produttive e industriali che si è verificata negli ultimi decenni ha aggravato questa condizione di fragilità perché il consumo di suolo porta inevitabilmente a una riduzione dei terreni permeabili, quelli cioè che possono assorbire la pioggia. E parallelamente l’incremento delle aree urbanizzate, ha portato a un considerevole aumento dell’esposizione al rischio, in termini di beni e persone presenti in aree soggette a pericolosità per frane e alluvioni.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale quasi il 94% dei comuni italiani è a rischio di frane, alluvioni ed erosione costiera e oltre 8 milioni di persone abitano nelle aree ad alta pericolosità per questo tipo di eventi. Se ci si focalizza sul rischio alluvioni la popolazione residente in aree a pericolosità idraulica elevata o media supera i 9 milioni di persone, a cui bisogna aggiungere oltre 12 milioni di persone che vivono in aree a pericolosità bassa.
A livello nazionale il 14% del territorio ricade in aree considerate a pericolosità bassa, il 10% è in aree a pericolosità media e il 5,4% in aree a rischio elevato. La parte restante di territorio – quindi la grande maggioranza – non è considerata a rischio.
Tra le regioni con il rischio maggiore c'è proprio l’Emilia-Romagna dove, come si può vedere anche dalla mappa, quasi tutti i comuni si trovano in aree a pericolosità idrica media o elevata. Le altre regioni in cui le percentuali di territorio potenzialmente allagabile per i tre scenari di pericolosità/probabilità risultano superiori rispetto al dato medio nazionale sono Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Toscana e Calabria (quest'ultima è particolarmente esposta allo scenario di rischio elevato).
L'Emilia-Romagna è prima anche per numero di abitanti potenzialmente coinvolti in frane e alluvioni. I dati dell’ultima rilevazione di Ispra dicono che 428mila persone vivono in aree a pericolosità elevata, 2,3 milioni di persone in aree a pericolosità media e meno di 300mila in aree almeno a pericolosità bassa. Come spiega l’istituto, la notevole estensione delle aree allagabili in Emilia-Romagna è legata alla presenza di una complessa rete di corsi d’acqua che si sviluppano su ampie aree morfologicamente depresse, cioè a un livello più basso rispetto al suolo. Inoltre spesso i canali sono pensili, cioè il letto è sopraelevato rispetto al piano di campagna. Le Regioni con percentuali di popolazione esposta a rischio di alluvione superiori ai valori calcolati alla scala nazionale per tutti gli scenari di pericolosità, sono Veneto, Liguria, Emilia-Romagna e Toscana."
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CHI SEMINA VENTO
Trasmissione del 3 luglio 2023
"Il presidente francese critica il ruolo delle piattaforme video nella violenza nazionale, ma alcuni sostengono che i politici abbiano trovato un facile capro espiatorio.
PARIGI - I rivoltosi francesi hanno incendiato il Paese ed Emmanuel Macron punta il dito contro TikTok e Snapchat per aver gettato benzina sull'inferno.
A differenza della letale esplosione di violenza del 2005, i disordini - che hanno portato alla chiusura dei trasporti pubblici, all'annullamento di concerti e al dispiegamento di veicoli blindati in tutto il Paese - possono essere documentati in tempo reale, condivisi online e visti da decine di migliaia di persone su piattaforme di social media come TikTok, Snapchat e Twitter.
Questo fenomeno online sta preoccupando i leader politici francesi, che si sono affannati a trovare soluzioni mentre i disordini non mostrano segni di attenuazione.
"Abbiamo assistito a raduni violenti organizzati su diverse [piattaforme di social media], ma anche a una sorta di mimesi della violenza", ha dichiarato venerdì il presidente francese Emmanuel Macron dopo una riunione di crisi del governo. Ha accusato i giovani rivoltosi di uscire dalla realtà e "vivere i videogiochi che li hanno intossicati".
Il presidente francese vuole che le aziende tecnologiche cancellino i contenuti violenti e forniscano alle forze dell'ordine l'identità dei manifestanti che usano i social media per fomentare - ed esacerbare - i disordini. "Mi aspetto che queste piattaforme siano responsabili", ha detto.
Secondo una ricerca del canale d'informazione più seguito in Francia, BFM, TikTok e Snapchat sono stati inondati venerdì mattina da video di disordini e saccheggi in tutta la Francia. Su TikTok, gli hashtag legati alle rivolte sono stati spinti dall'algoritmo della piattaforma. I funzionari di polizia hanno anche detto a BFM che alcuni manifestanti si coordinano e comunicano in tempo reale attraverso i servizi di messaggistica su WhatsApp e Telegram, tramite strumenti online che non esistevano nel 2005, quando i disordini lasciarono centinaia di edifici pubblici danneggiati e migliaia di auto bruciate.
Alcuni, tuttavia, sostengono che le piattaforme di social media sono ingiustamente incolpate da politici esaltati che dovrebbero concentrare la loro attenzione altrove.
Venerdì, l'ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani è intervenuto dicendo che la Francia deve affrontare "questioni di razzismo e discriminazione nelle forze dell'ordine", riferendosi all'uccisione dell'adolescente.
La tecnologia è stata a lungo utilizzata per coordinare manifestazioni e proteste, ha dichiarato a POLITICO l'esperto di comunicazione politica Philippe Moreau Chevrolet, aggiungendo che il governo sarebbe "terribilmente fuori dal mondo" se rispondesse alla crisi concentrandosi sulle aziende tecnologiche e sui videogiochi.
"Una volta si accusavano gli SMS [di aver favorito le rivolte], ora è il turno dei social network. Le proteste dei Gilet Gialli sono state imputate a Facebook", ha detto Moreau Chevrolet.
Ma il ruolo delle piattaforme online va oltre il mostrare incendi e saccheggi e l'aiutare i rivoltosi a organizzarsi. I violenti disordini di questa settimana sono iniziati con un video che, ovviamente, è stato postato sui social media.
"È evidente che c'è stato un cambiamento: sempre più persone hanno adottato il riflesso di filmare la polizia. Soprattutto, la comunità degli attivisti è ora in grado di far circolare rapidamente e ampiamente i video", ha dichiarato Magda Boutros, studiosa di sociologia all'Università di Washington che ha studiato l'attivismo contro la violenza della polizia in Francia.
Quando martedì un agente di polizia ha sparato e ucciso Nahel M. (il nome con cui è stato identificato pubblicamente), i media hanno inizialmente fatto affidamento su fonti delle forze dell'ordine che sostenevano che un autista avesse minacciato di morte l'agente. Ma un video, girato da un passante e pubblicato su Twitter, ha mostrato una storia diversa: due poliziotti si trovavano accanto a un'auto e uno ha sparato al conducente a distanza ravvicinata.
Un altro recente incidente (che non è stato filmato) ha mostrato il potere dei social media di responsabilizzare gli agenti di polizia violenti e la capacità di incendiare un Paese - o meno.
Due settimane fa, un adolescente è morto in circostanze simili a quelle di Nahel M. nella regione della Charente, nella Francia occidentale. Il giovane sarebbe stato ucciso da un agente di polizia per essersi rifiutato di obbedire.
Il fatto è passato relativamente inosservato, ha spiegato l'ex deputato francese Thomas Mesnier, perché la Charente si trova in una zona più remota rispetto alle dense banlieues della capitale francese.
È passato inosservato anche perché "non c'è stato un video che è diventato virale sui social network, partecipando e rafforzando le emozioni e il senso di terrore della gente".
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IL CONVITATO DI PIETRA
Trasmissione del 26 giugno 2023
“L’Italia non è nella situazione economica disperata che voi credevate”. È questo il titolo di un pensoso editoriale apparso oggi su Bloomberg a firma di Lionel Laurent.
Prendendo le mosse da una brillante ed innovativa media impresa lombarda fornitrice di componenti essenziali per le auto elettriche, quotata in Borsa da pochi mesi, l’autore tesse le lodi di un Paese che, dal livello di PIL pre pandemia, è cresciuto significativamente più di Francia, Germania e Spagna, attestandosi anche lievemente al di sopra della media dell’Eurozona.
Eravamo un caso disperato (secondo lui) perché la reputazione del nostro Paese è stata a lungo indebolita da governi di breve durata, un enorme debito pubblico e ed un settore bancario in condizioni disastrose, perdipiù aggravata dai due decenni in cui Silvio Berlusconi ho dominato la scena, caratterizzati da corruzione e promesse economiche non mantenute. Ha dimenticato solo Ruby e le Olgettine.
Dopodiché osserva quasi stupito che oggi è la stabilità politica a piacere agli investitori e lo spread Btp/Bund che è sceso intorno a 150 punti è la misura di questo gradimento. Ed attribuisce questi risultati alle “riforme economiche” ed ai fondi del NextGenerationEU. Cioè al nulla, dal punto di vista macroeconomico, aggiungiamo noi, perché i 67 miliardi incassati finora sono prevalentemente serviti a sostituire emissioni di titoli pubblici, in quanto destinati a finanziare investimenti già pianificati o addirittura eseguiti a partire dal febbraio 2020 (vedasi le opere di RFI).
Coglie invece il punto quando nota che i giganti d’oltralpe hanno i piedi d’argilla e le imprese italiane sono state più rapide ad adattarsi e reagire ai rapidi cambiamenti (lockdown da Covid, crisi energetica aggravata dalla guerra). Sul punto osserviamo che quelle enormi discontinuità nel placido tran tran (a crescita asfittica) dell’economia fino al 2019 ha messo a nudo il livello di rischiosità del modello economico germano-centrico. Tutto basato su materia prime (energia in testa) a basso costo, moderazione salariale e conseguente bassa inflazione. All’improvviso è saltato il banco, con il costo del lavoro per unità di prodotto tedesco che ha cominciato a correre, senza corrispondenti aumenti di produttività, minando la competitività dell’industria teutonica. Noi non avevamo messo entrambi i piedi nella scarpa dell’unico fornitore russo ed abbiamo conservato importanti fonti di approvvigionamento via gasdotti da Algeria, Libia ed Azerbaijan, pur subendo in pieno l’impatto dei prezzi impazziti.
L’autore si guarda bene dal ricordare che, rispetto al recente passato, un significativo deficit pubblico ha contribuito alla crescita del PIL, riducendo e stabilizzando il rapporto debito/PIL. Per non parlare del decennio perduto precedente, quando a colpi di avanzi primari voluti da Bruxelles, il Paese è stato zavorrato. La scelta di mettere cifre rilevanti nel settore delle costruzioni (anche via superbonus %), pur con tutte le critiche sul come e sul quando e sulla comparazione con scelte alternative, è da manuale quando si vuole rilanciare la crescita di un Paese. Ed il moltiplicatore di quella spesa si attestato intorno all’unità, in linea con quanto previsto dalla dottrina economica.
Ma il dispiacere per non poter mettere nuovamente l’Italia sul banco degli imputati e magari poterci fare un bel po’ di soldini, vendendo allo scoperto il Btp, appare evidente. Anche perché, se guardassimo il grafico del Btp decennale, pare proprio che qualcuno si sia fatto davvero male puntando contro i Btp dall’ottobre scorso. Per ben tre volte, sull’onda dei rialzi dei tassi della Bce, il mercato ha cercato di sfondare la soglia di rendimento intorno al 4,70%, ed è stato respinto con perdite e precipitose ricoperture. Da ultimo, ha tenuto pure il tetto del 4,30%.
Allora il Nostro – parlando ai propri lettori che evidentemente si stanno leccando le ferite e si stanno pentendo di non aver investito sui Btp – avverte che qualcosa potrebbe ancora andare male. C’è il livello di istruzione relativamente basso, la corruzione “percepita” (da chi?) al livello della Georgia (!), la lentezza del sistema giudiziario e, soprattutto, i tempi di spesa del PNRR, da cui dipenderebbe buona parte della crescita.
Un monito che somiglia al famoso “ricordati che devi morire!”. A cui noi rispondiamo “mo’ me lo segno”. Nel frattempo, loro si preoccupino dell’economia tedesca e francese a cui si è rotto il giocattolo e si ricordino che provare a vendere Btp nuoce gravemente al portafoglio.
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RESA DEI CONTI?
Trasmissione del 19 giugno 2023
"Avevamo fondati sospetti che la due giorni a Bruxelles tra Eurogruppo e Consiglio Ecofin avrebbe mostrato le profonde divisioni (tanto per cambiare…) che ci sono in Europa sul fronte della riforma del Patto di Stabilità e Crescita.
Il prologo dell’intervista di mercoledì del ministro francese delle finanze Bruno Le Maire al Financial Times era stato già ampiamente sufficiente a svelare la spaccatura sul fronte franco-tedesco. Ma venerdì, nella sede ufficiale del Consiglio dei ministri economico-finanziari, i toni sono stati particolarmente aspri. Anche perché il ministro tedesco Christian Lindner e quello francese Le Maire hanno parlato l’uno dopo l’altro ed è sembrato di ascoltare due extraterrestri in rapida successione, ciascuno proveniente da una galassia diversa. Il francese aveva preparato il terreno dichiarando al FT che avrebbe ridotto la spesa pubblica di Parigi soprattutto nell’area delle spese per mitigare l’impatto della crisi energetica. Ma aveva anche ribadito che “l’austerità non è un’opzione”, evidentemente sentendosi – con il deficit/PIL 2023 intorno al 5% – già nel mirino di Berlino.
E Lindner non l’ha mandata a dire. La sua battaglia è quella sul taglio automatico del deficit/PIL nella misura almeno di 1 punto percentuale annuo, anziché il mezzo punto proposto dalla Commissione. È vero che il percorso di rientro del debito sarà sempre oggetto di un negoziato personalizzato tra Commissione e ciascun Stato membro, ma ci deve essere una soglia minima che deve operare automaticamente, altrimenti (è la preoccupazione dei tedeschi) sarà il trionfo della discrezionalità e delle eccezioni.
Per essere sicuro che francesi (ed italiani) capissero per bene il messaggio, Lindner ha fatto l’esempio di un Paese “con un debito/PIL del 140% che, anche con la riduzione del 1% proposta dai tedeschi, servirebbero 80 anni prima di vederlo scendere sotto il 60%. Io avrei 124 anni…”. Insomma, il sogno della sua vecchiaia è vedere il debito/PIL al 60%, nell’illusione che l’azione per ridurre il numeratore non faccia terra bruciata del denominatore, come purtroppo abbiamo imparato a nostre spese a partire dal 2011.
Dopo pochi minuti, il francese non si è fatto pregare ed ha bollato come un errore grave gli automatismi su cui insistono i tedeschi. Grave sotto il punto di vista economico, perché quelle regole in passato sono state proprio la causa di anni di recessione, essendo pro cicliche. Ma grave anche sotto il profilo strettamente politico, perché metterebbero in discussione la “scelte sovrane di politica economica”.
Le Maire si è permesso di dire quanto ancora in molti – soprattutto in Italia – stentano a comprendere o ricordare: nell’attuale assetto istituzionale europeo “ibrido”, le Nazioni possono e devono fare scelte di bilancio specificamente mirate alle esigenze nazionali e quindi la politica economica – almeno quella di bilancio, ché quella monetaria è a Francoforte da più di 20 anni – deve avere un suo autonomo spazio d’azione. Il ministro francese ha sottolineato che la politica di bilancio deve essere uno strumento non un obiettivo e, in pochi minuti, ha pronunciato la parola “crescita” più di dieci volte. Ha evidenziato che c’è necessità di fare ingenti investimenti per la decarbonizzazione e gestire la sfida dell’intelligenza artificiale e questo è il momento di usare i bilanci pubblici per investire, tema su cui la UE è da sempre drammaticamente ultima. Sarà la crescita generata dagli investimenti a stabilizzare il rapporto debito/PIL.
Poco dopo è stata la volta del nostro ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti che ha puntato su un tema simile. Si tratta di ottenere lo scomputo dal rapporto debito/PIL degli investimenti in transizione ecologica e digitale. Insomma, almeno i 122 miliardi di prestiti che (forse) dovremmo ottenere a rate fino al 2026 in base al PNRR, ad un costo che ancora qualcuno si ostina a considerare conveniente, a dispetto dell’evidenza. Ma non solo, perché nei prossimi anni ci saranno altri investimenti pubblici da fare – perché il PNRR non può certo coprire tutte le nostre esigenze – che non possono sottostare alla tagliola delle regole europee, attuali o riformate.
Le regole che oggi ci si ostina a voler riformare (temiamo in peggio) sono figlie di un’altra era geologica ed hanno dimostrato sul campo la loro inefficacia e pro ciclicità, facendo dall’eurozona il fanalino di coda tra le economie avanzate. Va semplicemente smontata quella farraginosa e minuziosa accozzaglia di regolamenti messa a punto tra 2012 e 2013 sull’onda emotiva della crisi dei debiti pubblici (sottoprodotto della crisi dei debiti privati che la precedette) e mettere ciascuno Stato membro e sovrano nelle condizioni di fare le proprie scelte in modo responsabile. Tanto il vincolo c’è già ed è quello di potersi indebitare soltanto in una moneta che non si controlla.
E tanto, purtroppo, basta. Per ora, intoniamo “Allons enfant de la patrie, Le jour de gloire est arrivé…”.
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SUCCESSIONE
Trasmissione del 14 giugno 2023
«Eccomi, sono qui per voi, per la prima volta in camicia e giacca dopo oltre un mese.
Noi siamo il pilastro essenziale e leale di questa maggioranza, siamo la spina dorsale di questo Governo. Per questo siamo in campo, per far sì che le sue decisioni siano davvero corrette, giuste, equilibrate. Con gli alleati c'è vera amicizia, continueremo un rapporto leale.
Cari amici, manca circa un anno alle elezioni europee. L’Europa è il nostro orizzonte di riferimento, solo l’Europa può essere protagonista nelle grandi sfide globali, a cominciare da quella posta dall’imperialismo cinese. Dobbiamo far sì che l’Europa divenga un vero Continente unito, con regole di voto diverse rispetto a quelle attuali. Dobbiamo passare dall’unanimità alla maggioranza qualificata, che io ho proposto possa essere il voto dell’80/85% dei Paesi Europei.
Dobbiamo avere un’unica politica militare, con una forte cooperazione tra le forze armate di tutti i Paesi Europei, con un aumento della spesa militare e con un Corpo di pronto Intervento di almeno 300mila uomini. Tutto questo, che io chiedo dal 2002, non è stato mai realizzato. E purtroppo così, l’Europa, nel mondo, conta poco. Se la Cina - lo dico naturalmente per assurdo - un giorno decidesse di occupare l’Italia, e magari qualche altro Paese Europeo, non sapremmo assolutamente contrastarla e la cosa migliore che ci converrebbe fare sarebbe quella di andare a scuola a studiare il cinese.
Noi vogliamo aumentare le pensioni, i salari, gli stipendi che sono rimasti quelli di 20 anni fa. Noi vogliamo ridurre la pressione fiscale sotto il 40% mentre ora è al 44%.
Vogliamo costruire tutte le infrastrutture necessarie per rendere veramente moderno il nostro Paese. Ed ora dobbiamo anche trovare urgentemente una risposta al problema della siccità per far sì che i nostri campi non restino senza acqua e i rubinetti non restino all’asciutto, come purtroppo oggi avviene in alcune nostre città. Abbiamo già cominciato a realizzare questi obbiettivi, il governo in pochi mesi ha portato a casa risultati importanti, dei quali siamo molto orgogliosi.
Forza Italia è per noi come una religione laica, la religione della libertà di cui parlava Benedetto Croce, una religione del cuore, della mente, un impegno verso noi stessi, i nostri figli, gli italiani. Mi raccomando, andiamo avanti così, con convinzione, entusiasmo, passione. Nessuno riuscirà a sconfiggerci, vedrete che gli italiani ci considereranno i loro santi laici, i santi della loro libertà e del benessere. Sarò con voi con lo stesso entusiasmo e lo stesso impegno del ’94, il futuro è delle nostre idee, il futuro ci deve garantire una vera e completa libertà.
Qualche notte fa, qui al San Raffaele mi sono svegliato improvvisamente con una domanda in testa che non riuscivo a mandare via: “Ma come mai sono qui? Ma che ci faccio qui? Per cosa sto combattendo io qui?”. Vicino a me vegliava la mia Marta. Anche a lei posi la stessa domanda. “Perché siamo qui?”. E lei mi disse “Siamo qui perché hai lavorato tanto, ti stai impegnando molto perché per salvare la nostra democrazia e la nostra libertà”.
E questo voglio ricordarlo, voglio raccontare anche a voi quel che ho pensato e passato, anche se so che il farlo mi emozionerà davvero.»
Silvio Berlusconi, 6 maggio 2023
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UN BEL DÌ VEDREMO
Trasmissione del 5 giugno 2023
"La convergenza verso l'alto - in cui gli Stati membri compiono progressi economici mentre il divario tra Paesi e regioni si riduce - è sempre stata un'aspirazione politica fondamentale dell'Unione Europea.
Situazioni economiche simili e opportunità simili tra le regioni sono fondamentali per il funzionamento e la legittimità dell'Unione. Pertanto, la riduzione delle delle disparità e il perseguimento della coesione economica, sociale e territoriale, come sancito dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (art. 174) sono principi guida per lo sviluppo della politica economica dell'UE.
L'Europa sta attraversando una duplice transizione, quella della digitalizzazione e della decarbonizzazione, che sta cambiando drasticamente il modo in cui funziona la sua economia.
Gli adeguamenti necessari variano notevolmente tra le attività e, di conseguenza, tra le regioni europee che differiscono per struttura economica e specializzazione. Le caratteristiche locali, come l'accessibilità a Internet, impianti ad alta intensità di gas serra, la disponibilità di manodopera altamente qualificata e il tessuto sociale giocano un ruolo chiave nel plasmare le strutture economiche.
Inoltre, le attività in cui una regione si specializza sono indicative del suo potenziale di beneficiare della transizione digitale e verde. Le regioni specializzate in attività che progettano, producono o utilizzano soluzioni digitali e verdi beneficeranno fortemente della doppia transizione. Le regioni con una marcata dipendenza dalle attività agricole devono adattarsi in modo diverso rispetto alle regioni le cui economie sono dominate da servizi ad alta intensità di conoscenza o da industrie manifatturiere ad alta tecnologia.
I cambiamenti strutturali derivanti dalla transizione gemellare potrebbero ridisegnare il panorama economico europeo così come lo conosciamo e la coesione economica dell'UE.
Le regioni che oggi prosperano potrebbero perdere terreno domani, mentre le regioni in ritardo di sviluppo potrebbero sfruttare un potenziale precedentemente non sfruttato e crescere oltre le aspettative durante questa transizione gemellare. Di conseguenza, le disparità esistenti possono intensificarsi, scomparire o essere integrate da nuove. In ogni caso, emergono nuove sfide per il futuro della coesione dell'UE, che i responsabili politici devono affrontare per evitare che l'UE si allontani ulteriormente.
La transizione digitale e quella verde probabilmente amplificheranno questi modelli di crescita divergenti in Europa. Secondo la nostra analisi, il loro impatto sulla crescita regionale dipende dalle caratteristiche socio-economiche e territoriali delle regioni. Le regioni più pronte per la transizione gemellare sono principalmente le regioni metropolitane, specializzate nella fornitura di servizi ad alta intensità di conoscenza.
Questo tipo di regioni non solo ha il più alto potenziale di crescita economica, ma è anche in grado di trarre i maggiori benefici economici dalla transizione digitale e verde. Al contrario, le regioni agricole, che hanno i livelli di PIL pro capite più bassi in Europa hanno anche un basso potenziale di crescita economica, e le loro economie sono meno pronte ad affrontare i cambiamenti strutturali che si prospettano legati alla transizione digitale e gemellare. Per quanto riguarda le altre regioni, quelle ad alta tecnologia hanno un potenziale di crescita complessivo superiore a quello delle regioni specializzate in attività manifatturiere a bassa tecnologia.
Inoltre, le regioni manifatturiere ad alta intensità di carbonio (sia a bassa che ad alta tecnologia) mostrano livelli più bassi di preparazione, in particolare per la transizione verde, portando a tassi di crescita comparativamente più bassi rispetto alle regioni non ad alta intensità di carbonio.
I nostri risultati hanno implicazioni dirette per la coesione europea e la politica di coesione. Nel contesto della transizione gemellare, ridurre le disparità regionali esistenti diventerà ancora più difficile nei prossimi anni.
Pertanto, ancor più che in passato, la politica di coesione dell'UE deve superare le forze economiche che favoriscono una crescente agglomerazione di attività economiche ad alto valore nei centri urbani e industriali se l'Unione vuole mantenere l'obiettivo di coesione economica, sociale e territoriale sancito dal Trattato di Lisbona."
(Bertelsmann Stiftung, "The Future of EU Cohesion
Effects of the Twin Transition on Disparities across European Regions", 12.10.2022)
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SCONTRO INEVITABILE?
Trasmissione del 30 maggio 2023
« Uno spettro si aggira per lo spazio postsovietico (e per l’Eurasia): lo spettro di Brzezinski. Uno spettro che provoca poltergeist distruttivi tra Europa, Asia e Medio Oriente dagli anni Ottanta e che ha scritto – letteralmente – la nostra contemporaneità. Perché le relazioni internazionali del 2021 sono come le aveva immaginate Brzezinski ne “La grande scacchiera” (The Grand Chessboard), opera magna che, pubblicata nel lontano 1997, risulta quanto mai valida e attuale.
Lì, in quel testo per addetti ai lavori, Brzezinski delineava quella che sarebbe divenuta la grande strategia degli Stati Uniti per l’Eurasia, il cuore della Terra da mantenere sotto assedio per il bene dell’Impero americano e per la continuazione del momento unipolare nel ventunesimo secolo. Una strategia sempiterna, quella del geopolitico polacco, perché concepita per essere resistente all’erosione del tempo e all’albeggiare dell’era multipolare. Una strategia evidentemente interiorizzata da coloro in alto loco, ovvero dagli strateghi che sceneggiano e dirigono l’agenda estera della Casa Bianca, come mostrano e dimostrano gli accadimenti dell’ultimo ventennio:
Brzezinski aveva suggerito di incorporare l’intero ex patto di Varsavia all’interno di Unione Europea e Alleanza Atlantica. È accaduto.
Brzezinski aveva suggerito di investire sulla crescita economica e militare della Polonia, una nazione geopoliticamente unica, perché perfettamente incuneata tra Germania e Russia e, dunque, in grado di sabotare la traslazione in realtà dell’antico incubo mackinderiano di una “Gerussia”. È accaduto: oggi la Polonia è, a tutti gli effetti, il cuore pulsante del neo-maccartismo e il grande polmone di quell’euroscetticismo dalle venature antitedesche che periodicamente viene utilizzato al di là dell’Atlantico per indebolire tanto l’Ue quanto la Germania.
Brzezinski aveva suggerito di profittare dell’ottenimento dell’indipendenza dell’Azerbaigian e degli –stan dell’Asia centrale per creare un “arco di instabilità”, afflitto da guerre civili e radicalizzazione religiosa, funzionale ad aumentare i costi di mantenimento dell’egemonia sullo spazio postsovietico al Cremlino. Parimenti importante sarebbe stato l’ingresso della Turchia in questo paragrafo di spazio postsovietico, perché indispensabile ai fini della (ri)turchificazione e della (re)islamizzazione. È accaduto in parte: l’emergere di regimi autoritari e/o dittatoriali di ispirazione sovietica ha favorito la stabilità interna, ma i processi di radicalizzazione religiosa sono effettivamente avvenuti – l’Asia centrale è uno dei principali bacini di reclutamento dell’internazionale jihadista sin dai primi anni Duemila – e la Turchia sta poco a poco dando vita ad un “corridoio panturco” esteso da Istanbul a Samarcanda.
Brzezinski aveva suggerito di inglobare l’Ucraina nell’orbita euroamericana. È accaduto, come è noto, nel 2014.
Brzezinski aveva previsto il consolidamento dell’asse franco-tedesco, mettendone in luce i potenziali rischi per il disegno americano per l’Europa: l’economia di Berlino e il militare di Parigi avrebbero potuto alimentare la comparsa di un europeismo velatamente antiamericano, cioè mirante ad una maggiore autonomia dagli Stati Uniti in campo estero. È accaduto di recente, con l’alleanza di ferro siglata da Emmanuel Macron e Angela Merkel.
Brzezinski aveva previsto la formazione di un’intesa cordiale tra Russia e Cina, possibilmente estesa all’Iran, nel dopo-allontanamento dell’Ucraina dalla sfera di influenza del Cremlino – fondamentale, secondo lui, per espellere definitivamente la Russia dall’Europa e renderla un “impero asiatico”. È accaduto in parte: Russia e Cina hanno effettivamente dato vita all’alleanza tattica più importante della contemporaneità, ma né l’una né l’altra hanno manifestato l’interesse di dar vita ad una veridica coalizione antiegemonica includente l’Iran.»
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FRIDAY AGAINST FUTURE
Trasmissione del 22 maggio 2023
«HIROSHIMA, Giappone – I leader delle nazioni del G7 si sono uniti sabato per sollecitare la Cina a fare pressioni sul suo partner strategico Russia affinché metta fine alla sua guerra contro l’Ucraina.
“Chiediamo alla Cina di esercitare pressioni sulla Russia affinché metta fine alla sua aggressione militare e ritiri immediatamente, completamente e incondizionatamente le sue truppe dall’Ucraina”, si legge nella dichiarazione del G7. “Incoraggiamo la Cina a sostenere una pace globale, giusta e duratura basata sull’integrità territoriale e sui principi e gli scopi della Carta delle Nazioni Unite”, anche nei colloqui diretti con l’Ucraina.
Hanno chiesto di lavorare insieme su sfide come il cambiamento climatico, la biodiversità, i debiti e le esigenze di finanziamento dei paesi vulnerabili, le preoccupazioni per la salute globale e la stabilità economica.
Tuttavia, si sono detti “seriamente preoccupati” per la situazione nel Mar Cinese Orientale e Meridionale, dove Pechino ha ampliato la sua presenza militare e ha minacciato di usare la forza per esercitare il controllo su Taiwan. Hanno chiesto una “risoluzione pacifica” della rivendicazione della Cina su Taiwan, che è rimasta irrisolta da quando i comunisti hanno preso il potere sulla terraferma cinese nel 1949.
La dichiarazione sostiene che “non vi è alcuna base legale per le affermazioni di espansione marittima della Cina” e che il G7 “si oppone alle attività di militarizzazione della Cina nella regione”.
“Una Cina in crescita che rispetti le regole internazionali sarebbe di interesse globale”, afferma la dichiarazione del G7, riferendosi alle accuse secondo cui Pechino sta minando “l’ordine internazionale basato sulle regole”.
I leader hanno anche espresso preoccupazione per i diritti umani in Cina, anche in Tibet, Hong Kong e nell’estremo Xinjiang occidentale, dove la questione del lavoro forzato è un problema costante.
“I nostri approcci politici non sono progettati per danneggiare la Cina, né cercano di ostacolare il progresso e lo sviluppo economico della Cina”, ha affermato. La dichiarazione ha evidenziato un consenso sul fatto che gli sforzi per diversificare le catene di approvvigionamento manifatturiero e garantire un accesso stabile a minerali e altre risorse strategicamente importanti non mirano a recidere i legami commerciali con la seconda economia mondiale.»
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Pechino punta il dito contro i ministri degli Esteri del G7 accusati di "calunniare" e "diffamare" il gigante asiatico con le critiche alla politica cinese su Taiwan e le "ampie richieste" sul Mar cinese meridionale. Per il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Wang Wenbin, la "riunione dei ministri degli Esteri del G7 ignora la solenne posizione della Cina e i fatti obiettivi". "Interferisce in modo flagrante negli affari interni della Cina, che calunnia e diffama in maniera malevola", ha poi aggiunto.
Così, Wang ha rivelato che Pechino ha presentato una denuncia "ferma" al Giappone, Paese che ha ospitato l'incontro, e ha ribadito che Taiwan "è una parte sacra e inalienabile del territorio cinese". "Il principio 'una sola Cina' è il perno su cui impostare il mantenimento della pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan", ha affermato.
"Per mantenere la pace nello Stretto di Taiwan, è necessario opporsi chiaramente e fermare ogni attività per l'indipendenza di Taiwan", ha aggiunto. Quanto alle "questioni di Hong Kong, dello Xinjiang e del Tibet fanno parte delle questioni interne cinesi". "Nessuna forza esterna sarà autorizzata ad interferire in alcun modo", ha avvertito.
Il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha anche sottolineato che l'attuale situazione nel Mar cinese meridionale è "generalmente stabile" e ha chiesto alla comunità internazionale di "rispettare gli sforzi dei Paesi della regione per mantenere la pace e la stabilità e fermare le provocazioni volte ad intensificare gli scontri tra le parti".
Il G7 "non ha il diritto di fare dichiarazioni irresponsabili sulla Cina", ha aggiunto, chiedendo al gruppo di "pensare ai propri problemi, abbandonare la mentalità da guerra fredda e i pregiudizi ideologici e non ignorare le tendenze generali del mondo". "Devono smetterla di puntare il dito con condiscendenza contro altri paesi e di interferire negli affari interni di altri stati".
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CROCEVIA
Trasmissione del 15 maggio 2023
"La sconfitta del fascismo nel 1945 ha influenzato in modo fondamentale il corso della storia mondiale e ha creato le condizioni per la creazione di un ordine mondiale postbellico. La Carta delle Nazioni Unite ne è diventata la struttura portante e una fonte fondamentale del diritto internazionale fino ad oggi. Il sistema incentrato sulle Nazioni Unite conserva ancora la sua sostenibilità e ha un grande grado di resilienza. È una sorta di rete di sicurezza che assicura lo sviluppo pacifico dell'umanità in un contesto di naturale divergenza di interessi e rivalità tra le principali potenze. L'esperienza bellica della cooperazione senza ideologie tra Stati con sistemi socioeconomici e politici diversi è ancora di grande attualità.
È deplorevole che queste ovvie verità vengano deliberatamente taciute o ignorate da alcune forze influenti in Occidente. Inoltre, alcuni hanno intensificato i tentativi di privatizzare la Vittoria, cancellando dalla memoria il ruolo dell'Unione Sovietica nella sconfitta del nazismo, condannando all'oblio l'impresa di sacrificio e di liberazione dell'Armata Rossa, dimenticando i molti milioni di cittadini sovietici che sono morti durante la guerra, cancellando dalla storia le conseguenze della rovinosa politica di pacificazione.
Interpretare il passato in questo modo significa anche che alcuni dei nostri partner considerano la creazione di un legame transatlantico e l'insediamento permanente della presenza militare statunitense in Europa come una delle principali conquiste del sistema di relazioni internazionali del dopoguerra. Non è certo questo lo scenario che gli Alleati avevano in mente quando hanno creato le Nazioni Unite.
L'Unione Sovietica si è disintegrata; il Muro di Berlino, che aveva simbolicamente separato i due "campi", è caduto; l'inconciliabile contrapposizione ideologica che definiva il quadro della politica mondiale praticamente in tutti gli ambiti e in tutte le regioni è diventata un ricordo del passato - eppure, questi spostamenti tettonici, purtroppo, non hanno portato al trionfo di un'agenda unificante. Al contrario, tutto ciò che abbiamo potuto sentire sono state dichiarazioni trionfanti sul fatto che la "fine della storia" era arrivata e che d'ora in poi ci sarebbe stato un solo centro decisionale globale.
Oggi è evidente che gli sforzi per stabilire un modello unipolare sono falliti. La trasformazione dell'ordine mondiale è diventata irreversibile. I nuovi attori principali, che dispongono di una base economica sostenibile, cercano di aumentare la loro influenza sugli sviluppi regionali e globali; hanno il pieno diritto di rivendicare un ruolo maggiore nel processo decisionale. Cresce la richiesta di un sistema più giusto e inclusivo. La stragrande maggioranza dei membri della comunità internazionale rifiuta le arroganti politiche neocoloniali che vengono impiegate ancora una volta per dare a certi Paesi il potere di imporre la propria volontà ad altri.
Tutto ciò disturba non poco coloro che per secoli sono stati abituati a definire i modelli di sviluppo globale facendo leva su vantaggi esclusivi. Mentre la maggioranza degli Stati aspira a un sistema di relazioni internazionali più giusto e a un rispetto autentico, piuttosto che dichiarativo, dei principi della Carta delle Nazioni Unite, queste richieste si scontrano con le politiche volte a preservare un ordine che consente a un gruppo ristretto di Paesi e di imprese transnazionali di raccogliere i frutti della globalizzazione. La risposta dell'Occidente agli sviluppi in corso rivela la vera visione del mondo dei suoi sostenitori. La loro retorica sul liberalismo, la democrazia e i diritti umani va di pari passo con le politiche di disuguaglianza, ingiustizia, egoismo e convinzione del proprio eccezionalismo.
Il "liberalismo", che l'Occidente pretende di difendere, si concentra sugli individui e sui loro diritti e libertà. Ciò pone la domanda: come si concilia con la politica di sanzioni, strangolamento economico e minacce militari palesi nei confronti di alcuni Paesi indipendenti? Le sanzioni colpiscono direttamente le persone comuni e il loro benessere e violano i loro diritti sociali ed economici. In che modo il bombardamento di nazioni sovrane, la politica deliberata di distruzione della loro statualità che ha portato alla perdita di centinaia di migliaia di vite e che ha condannato milioni di iracheni, libici, siriani e rappresentanti di altri popoli a innumerevoli sofferenze si aggiunge all'imperativo di proteggere i diritti umani? L'azzardo della Primavera araba ha distrutto il mosaico etnico e religioso unico del Medio Oriente e del Nord Africa.
Il concetto di "ordine basato sulle regole" ha lo scopo di sostituire gli strumenti e i meccanismi giuridici internazionali universalmente concordati con formati ristretti, in cui vengono sviluppati metodi alternativi e non consensuali per risolvere i vari problemi internazionali, aggirando un quadro multilaterale legittimo."
https://eng.globalaffairs.ru/articles/world-at-a-crossroads-and-a-system-of-international-relations-for-the-future/
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VERSO IL CREPUSCOLO
Trasmissione del 8 maggio 2023
"Nelle ultime fasi di un impero, sfruttare i flussi di ricchezza non guadagnata dall'estero è molto più redditizio che cercare di produrre ricchezza in patria, e la maggior parte delle persone indirizza i propri sforzi di conseguenza. È così che si finisce per avere la tipica economia tardo-imperiale, con una classe dirigente che ostenta fantastici livelli di ricchezza cartacea, una classe di parassiti che prospera servendo i ricchissimi o occupandosi dei barocchi sistemi burocratici che permeano la vita pubblica e privata, e la stragrande maggioranza della popolazione impoverita, imbronciata e non disposta a muovere un dito per salvare i loro c.d. padroni dalle conseguenze delle loro stesse azioni.
La buona notizia è che c'è una soluzione a tutto questo. La cattiva notizia è che ci vorranno un paio di decenni di gravi turbolenze per arrivarci. La soluzione è che l'economia statunitense si riorganizzerà per produrre ricchezza guadagnata sotto forma di beni reali e servizi non finanziari quando i flussi di ricchezza non guadagnata vacilleranno, i beni stranieri diventeranno inaccessibili per la maggior parte degli americani e diventerà di nuovo redditizio produrre qui negli Stati Uniti. La difficoltà, ovviamente, è che la maggior parte di un secolo di scelte economiche e politiche volte a sostenere il nostro ex progetto imperiale dovranno essere annullate.
L'esempio più ovvio? L'aumento metastatico dei posti di lavoro manageriali nel governo, nelle aziende e nelle organizzazioni no-profit nella vita americana. Gli uffici pubblici e privati pullulano di legioni di impiegati il cui lavoro non contribuisce in alcun modo alla prosperità nazionale, ma il cui stipendio sostiene il settore dei consumi. Questa bolla sta già perdendo aria. È indicativo il fatto che Elon Musk, dopo l'acquisizione di Twitter, abbia licenziato circa l'80% del personale di quell'azienda; altri grandi gruppi internet stanno riducendo la loro forza lavoro.
L'intelligenza artificiale sta contribuendo ad amplificare la stessa tendenza. Dietro ai chatbot ci sono programmi chiamati grandi modelli linguistici (LLM), che sono molto bravi a imitare gli usi più prevedibili del linguaggio umano.
Un gran numero di lavori d'ufficio consiste nel produrre testi che rientrano in questa categoria: contratti, memorie legali, comunicati stampa, articoli per i media etc. Questi lavori stanno scomparendo. La codifica informatica è ancora più adatta alla produzione di LLM, quindi si può dire addio anche a molti lavori nel campo del software. Qualsiasi altra forma di attività economica che implichi l'assemblaggio di sequenze prevedibili di simboli sta affrontando la stessa crisi.
Un recente documento di Goldman Sachs stima che qualcosa come 300 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo industriale saranno interamente o parzialmente sostituiti da LLM negli anni immediatamente successivi.
Un'altra tecnologia con risultati simili è la creazione di immagini in CGI. Levi's ha annunciato poco tempo fa che tutti i suoi futuri cataloghi e pubblicità utilizzeranno immagini in CGI invece di modelli e fotografi altamente pagati. . E non siamo troppo lontani dal punto in cui un programma potrà raccogliere tutte le riprese di Marilyn Monroe dai suoi film e usarle per generare nuovi film di Marilyn Monroe per una minuscola frazione di quanto costa assumere attori viventi, troupe e tutto il resto. Il risultato sarà una drastica riduzione dei posti di lavoro ad alta retribuzione in un'ampia fascia dell'economia.
Il risultato di tutto questo? Beh, un gruppo di opinionisti insisterà a squarciagola sul fatto che non cambierà nulla di rilevante, mentre un altro gruppo inizierà a gridare che l'apocalisse è alle porte. Naturalmente, nessuna delle due cose accadrà davvero.
Succederà invece che le classi medie e medio-alte degli Stati Uniti, e di molti altri Paesi, dovranno affrontare lo stesso tipo di lenta demolizione che ha travolto le classi lavoratrici di quegli stessi Paesi alla fine del XX secolo. Licenziamenti, fallimenti aziendali, riduzione di stipendi e benefit e l'ultima versione high-tech dei cartelli NO HELP WANTED si susseguiranno a intervalli irregolari. Tutte le imprese che fanno soldi per soddisfare queste stesse classi perderanno anch'esse il loro reddito, un pezzo alla volta. Le comunità si svuoteranno, ma questa volta toccherà ai sobborghi di lusso e ai quartieri urbani alla moda crollare a causa della scomparsa dei flussi di reddito che li sostenevano.
Non si tratterà di un processo rapido. Il dollaro USA sta perdendo il suo posto come mezzo universale di scambio con l'estero, ma sarà ancora utilizzato da alcuni Paesi per gli anni a venire. Il disfacimento degli accordi che indirizzano la ricchezza non guadagnata verso gli Stati Uniti sarà un po' più rapido, ma richiederà ancora tempo. Il crollo della classe dei cubicoli e lo sventramento delle periferie si svilupperanno nell'arco di decenni. È così che si svolgono cambiamenti di questo tipo."
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DECOLONIZZAZIONE
Trasmissione del 1° maggio 2023
"Quale de-dollarizzazione? Il dollaro governa il mondo.
Secondo una stima, il dollaro partecipa all'88% di tutte le transazioni internazionali. Alcuni temono che questo dominio non possa durare, mentre altri si chiedono se sia il caso di farlo: Un dollaro più forte non danneggia le esportazioni statunitensi e quindi i lavoratori americani?
La buona notizia, almeno per gli americani, è che l'egemonia del dollaro è vantaggiosa per gli Stati Uniti, il loro governo e la maggior parte dei loro cittadini. Inoltre, è probabile che duri per il prossimo futuro.
Ultimamente la questione è diventata più attuale. A causa delle sanzioni, la Russia è tagliata fuori da molte reti basate sul dollaro. Altre nazioni, come il Brasile, l'India e l'Arabia Saudita, si sono mosse almeno di facciata verso la "de-dollarizzazione", sperando di fare meno affidamento sul dollaro per i loro scambi internazionali.
Pensate a un "dollaro solido e focale" come a un bene o a un servizio che gli Stati Uniti producono, proprio come la Cina produce telefoni o il Giappone automobili. Quando gli americani scambiano dollari per beni e servizi stranieri, questo si misura come un deficit commerciale degli Stati Uniti, ma può anche essere visto come un'America che esporta dollari e "servizi in dollari". Gli Stati Uniti commercializzano e commercializzano il loro dollaro, proprio come Zara o Gap commercializzano l'abbigliamento.
Quindi il tanto decantato deficit commerciale degli Stati Uniti può essere riconcettualizzato come una forma di baratto: un servizio (la stabilità del dollaro) viene scambiato con un altro bene o servizio (ad esempio, qualsiasi cosa l'America acquisti dalla Cina). In sostanza, il branding e la vendita di dollari in modo così efficace - noto anche come "acquisto di cose" - consente ai consumatori statunitensi di avere un tenore di vita più elevato.
Per essere chiari, a volte la vendita di un particolare bene o servizio può essere negativa, o almeno una benedizione mista. L'economia venezuelana, ad esempio, dipende in larga misura dalle entrate petrolifere e, con l'instabilità dei prezzi del petrolio, le sue entrate sono inaffidabili. La domanda di dollari USA non è altrettanto instabile. Anzi, con il conflitto in Ucraina e le crescenti ambizioni cinesi, il dollaro sembra avere un futuro sicuro come valuta rifugio - forse troppo sicuro, da un punto di vista più ampio.
Se c'è un pericolo, è che l'imminente dibattito a Washington sul tetto del debito sfoci in un default degli Stati Uniti. Anche se ciò dovesse accadere, tuttavia, non sarebbe un argomento contro l'egemonia del dollaro, né una prova che l'egemonia del dollaro debba finire. Sarebbe solo un'ulteriore prova della stupidità della politica americana.
Nella misura in cui il dollaro USA è forte, ciò rende più difficile per l'America esportare altri beni e servizi. Ma non c'è nulla di speciale o indesiderabile in questa realtà. Se la Corea del Sud esportasse più telefoni Samsung, ad esempio, ciò farebbe aumentare i salari sudcoreani e il won, e a sua volta renderebbe più difficile per la Corea esportare prodotti alternativi come il K-pop.
Fino a che punto procederà il discorso della de-dollarizzazione? Probabilmente non molto. Gli Stati Uniti hanno i mercati finanziari più profondi e liquidi del mondo e rimangono relativamente aperti, nonostante alcune restrizioni sugli investimenti cinesi in settori sensibili per la sicurezza nazionale. Ci sono forti ragioni per avere una valuta dominante nei mercati internazionali, così come ci sono forti ragioni per avere una valuta dominante nelle transazioni interne agli Stati Uniti. La liquidità di una valuta genera ulteriore liquidità, sia a livello nazionale che globale.
Con il dollaro che, secondo le stime, rappresenta l'88% di tutte le transazioni internazionali, l'euro, con il 31%, è solo un modesto concorrente (poiché una transazione può coinvolgere due valute, il totale può superare il 100%). L'euro, a differenza del dollaro, non sarà mai legato a un singolo governo nazionale e l'Unione Europea non si avvicina alla potenza militare degli Stati Uniti.
Lo yuan è stimato solo al 7% del totale delle transazioni internazionali e la Cina non sembra disposta ad aprire i suoi mercati dei capitali, perché ciò potrebbe portare a rapidi deflussi di capitale e forse a una crisi finanziaria. Ma senza mercati dei capitali aperti, lo yuan non è un forte concorrente per diventare una valuta di riserva globale."
(Tyler Cowen, Bloomberg, 13 aprile 2023)
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APRIL'S FOOL
Trasmissione del 3 aprile 2023
"Che cosa emerge dalle ultime notizie relative al Pnrr. L’analisi di Giuseppe Liturri
Il comunicato di lunedì sera partito da Palazzo Chigi ha dato l’ufficialità ad uno scenario chiaro sin dal primo momento in cui il Pnrr vide la luce e fu inviato a Bruxelles a fine aprile 2021.
Sarebbe stato un calvario sempre più doloroso, semestre dopo semestre fino al 2026, di cui vi avevamo dato ampiamente conto. Altro che pioggia di miliardi. Solo una infernale concatenazione di scadenze, burocrazia ed obiettivi impossibili da conseguire, peraltro riferiti ad alcune spese di dubbia efficacia.
Chi aveva chiaro il percorso complessivo disegnato dalla Commissione con tutti i suoi 528 obiettivi e traguardi, sapeva che sarebbe stato solo questione di tempo per far arrivare al pettine i tanti, troppi, nodi irrisolvibili.
Ed ora ci siamo. Il comunicato serve a rendere ufficiale che, per la valutazione del “soddisfacente” conseguimento dei 55 obiettivi rendicontati dal governo Meloni a fine dicembre e relativi all’intero semestre (quindi per buona parte a carico del governo Draghi), la Commissione avrà bisogno di un altro mese. Tre i nodi che stanno rallentando la valutazione (preliminare) da parte dei tecnici di Bruxelles: la riforma delle concessioni portuali, le reti di teleriscaldamento, i Piani Urbani Integrati, per i quali la Commissione ha contestato l’ammissibilità degli interventi relativi al “Bosco dello Sport” di Venezia e allo “Stadio Artemio Franchi” di Firenze.
“I ritardi del Piano nazionale delle riforme sono incolmabili e non dipendono nemmeno dall’incapacità dei governi. È il sistema a non essere in grado di assorbire quel volume di investimenti. Se fossi in Giorgia Meloni, convocherei una conferenza stampa, annuncerei che l’Italia non ce la fa, e chiederei all’Europa o una dilazione dei tempi, o un dimezzamento dei fondi. Dei 209 miliardi previsti ne possiamo utilizzare forse cento”. Così riportava martedì 28 marzo La Stampa.
Ma non c’è nulla su cui recriminare. Appena si è passati dalla produzione di “carta” all’apertura, gestione e chiusura di cantieri è emerso che quel cronoprogramma imposto dalla Commissione è semplicemente inattuabile in molti casi, o attuabile al prezzo di corse furiose e un sistematico e pericoloso superamento delle procedure di controllo a tutela delle casse pubbliche (non dimentichiamo che si tratta sempre di debiti da rimborsare) e, più in generale, di tutela dei diritti dei terzi. La tanto vituperata burocrazia, nelle sue forme non patologiche, serve proprio a garantire i necessari presidi di tutela dell’interesse pubblico, finanze statali in primis.
All’improvviso, ci si è resi conto della realtà di un Paese che, dopo la doppia crisi del 2009-2011, è stato costretto ad un sostanziale dimezzamento dell’incidenza degli investimenti pubblici sul Pil, depotenziando fortemente le capacità progettuali. E che non può raddoppiare quella capacità di spesa con un colpo di bacchetta magica, dimenticando che nel frattempo gli uffici tecnici dei Comuni e delle Regioni sono stati svuotati. Solo perché un gruppo di burocrati di Bruxelles ha redatto un rigido cronoprogramma con cadenze semestrali che ricorda tanto i piani quinquennali dell’Urss di Breznev. Si possono dimezzare i tempi di scrittura di un decreto, ma un cantiere ha dei tempi incomprimibili e la capacità produttiva del settore delle costruzioni, ma anche del digitale, non raddoppia in pochi mesi e, forse, nemmeno anni.
Sarebbe stato un atto di hybris già 40 anni fa, figuriamoci oggi, quando negli ultimi 36 mesi abbiamo vissuto pandemia, crisi energetica e conseguente inflazione ed un sanguinoso conflitto nel cuore dell’Europa. Eventi che hanno ribaltato qualsiasi pianificazione. Uno strumento che avrebbe dovuto avere un forte impatto congiunturale – visto che era stato concepito per risollevare le economie provate dal lockdown – è stato caricato della missione impossibile di modellare a lungo termine le economie degli Stati membri in direzione della transizione ecologica e digitale. Tutto questo mentre raddoppiavano i costi dei materiali, proprio in conseguenza della corsa all’abbandono delle fonti fossili verso quelle rinnovabili e, per non annoiarsi, il conflitto russo-ucraino entrava in una fase ancora più drammatica e sanguinosa, determinando la rottura dei rapporti tra la UE e Mosca, uno dei primi tre suoi fornitori di prodotti energetici.
Una tempesta perfetta."
Continua su Startmag: Giuseppe Liturri, "Pnrr, cronaca di un calvario annunciato"
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SPECIALE: Media mainstream: creatori di fake news?
Trasmissione del 3 aprile 2023
È una delle espressioni più abusate dei nostri giorni.
La convinzione popolare è che le fake news siano per lo più prodotte e diffuse dai social media. Tuttavia, uno sguardo più attento mostra che, purtroppo, sono spesso i mass media a diffondere informazioni non verificate.
Parleremo di pensiero critico e verifica delle fonti con Serena Tinari, giornalista investigativa specializzata nell'approfondimento di temi complessi.
Nata nel 1972, giornalista dal 1994, Serena Tinari ha lavorato per anni come documentarista d'inchiesta per la televisione svizzera (RSI e SRF). Tinari si è occupata di fake-news mediatiche, violazioni dei diritti umani e società digitale.
Ha co-creato l'iniziativa "Speak up for Assange", un appello in difesa del giornalista Julian Assange, cui hanno partecipato centinaia di giornalisti da 99 Paesi.
Insieme alla collega Catherine Riva, ha fondato Re-Check, Investigating and Mapping Health Affairs, un'organizzazione di ricerca accademica e giornalismo investigativo tesa al ristabilimento di una medicina evidence-based.
Links utili:
www.serenatinari.com
https://www.re-check.ch/wordpress/en/home_en/
https://www.bmj.com/content/372/bmj.n627
https://www.re-check.ch/.../function-creep-covid-19.../
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SI SALVI CHI PUÒ
Trasmissione del 27 marzo 2023
Nelle ore in cui Deutsche Bank fa vacillare i mercati, torna prepotentemente alla ribalta il ruolo del Mes come “salvatore” di banche in difficoltà.
Tema ancor più di attualità alla luce delle dichiarazioni del Presidente Giorgia Meloni dopo l’Euro Summit di venerdì, con le quali è stata ribadita la linea che il Parlamento già da novembre ha dettato al governo stesso: il Mes è strumento di ultima istanza in un quadro di regole che stanno cambiando e quindi prima si definisce un nuovo quadro di governo della politica economica europea (Patto di Stabilità, unione del mercato dei capitali ed unione bancaria) e poi, in conseguenza di tali scelte, si decide cosa fare di questo strumento disegnato per un’altra era geologica.
Abbastanza sorprendentemente – almeno per chi non lavora per gli interessi del nostro Paese – il comunicato conclusivo dell’Euro Summit non parla di Mes, ma parla esattamente di tutto ciò che deve precederlo.
Ma davvero il Mes (nella versione attuale o riformanda, differenza non banale, come vedremo) può svolgere un ruolo in una crisi di una banca con rilevanza sistemica, come Deutsche Bank, e quindi servirebbe subito ratificare la riforma?
La risposta è no. Per diversi motivi che illustreremo di seguito. Incluso il colpo di scena che troverete alla fine.
Basterebbe un argomento per terminare subito questo articolo: il prestito di sostegno del Mes (riformando) al fondo di risoluzione unico (SRF) sarebbe pari al massimo a 68 miliardi ed arriverebbe solo quando tale fondo avesse esaurito le proprie disponibilità e non avesse altre fonti disponibili (altri contributi straordinari delle banche, per esempio). Insomma davvero uno strumento di ultima istanza quando, dopo aver chiesto un adeguato sacrificio ad azionisti, obbligazionisti non garantiti e depositanti oltre i 100 mila (il famigerato bail-in), l’autorità di risoluzione avrebbe esaurito anche le proprie disponibilità (oggi intorno ai 70 miliardi) ed avrebbe bisogno di ulteriori fondi da prestare alla banca oggetto di risoluzione.
In definitiva, risorse limitate – a cui l’Italia dovrebbe per giunta generosamente contribuire – che sarebbero schiuma sulla battigia rispetto allo tsunami derivante dal dissesto di una banca come quella tedesca. Ricordiamo che la vicenda di Credit Suisse ha visto la banca centrale svizzera mettere a disposizione 200 miliardi di franchi ed altre risorse sostanzialmente illimitate.
Ma, nell’ipotesi in cui il Mes bastasse, cosa accadrebbe?
L’attuale Trattato del Mes prevede che, in caso di crisi bancaria, il Mes possa intervenire erogando prestiti agli Stati per ricapitalizzare le rispettive banche, come accaduto alla Spagna, beneficiaria di 41 miliardi tra 2012 e 2014. Questo intervento segue le regole di condizionalità degli altri prestiti del Mes agli Stati (precauzionale e a condizioni rafforzate), quindi richiede la stipula di un protocollo d’intesa più o meno rigido.
Poi c’è lo strumento di ricapitalizzazione diretta delle banche (DRI) da parte del Mes. Introdotto a fine 2014 e mai utilizzato, prevede proprio l’ingresso diretto del Mes nel capitale delle banche in crisi con un fondo disponibile di 60 miliardi.
Il tanto invocato prestito di sostegno del Mes al SRF origina proprio da qui. Per stessa ammissione del Mes, la ricapitalizzazione diretta è molto pericolosa per l’istituto lussemburghese in quanto costituirebbe un’esposizione diretta al rischio di default della banca ricapitalizzata e quindi peggiorerebbe il rating del Mes. Molto meglio (sempre per loro) far intervenire direttamente il SRF seguendo le regole per la risoluzione messe a punto con la direttiva sul bail-in (BRRD) e, nel caso di insufficienza di quest’ultimo, intervenire con un prestito di ultima istanza.
Insomma quando in Europa si sono resi conto che è impossibile fare un’Unione Bancaria senza avere un fondo di risoluzione con risorse “credibili”, allora, per renderla “credibile” si sono inventati il prestito “paracadute” del Mes al SRF, di durata triennale aumentabile di altri due anni. Basti considerare che il SRF (partito nel 2016) è ancora in un periodo transitorio fino al 31 dicembre 2023, quando dovrebbe raggiungere un importo pari al 1% dei depositi bancari dell’eurozona.
Il prestito del Mes deve essere “fiscalmente neutro”. Cioè, nel medio termine, quel prestito deve essere restituito facendo leva su contributi e prelievi provenienti dal settore bancario che già alimenta il SRF con contributi annuali.
Ecco perché è più sicuro, dal punto di vista del Mes, prestare al SRF anziché ricapitalizzare una singola banca. Si rischia meno. Il prestito di sostegno del Mes conviene al… Mes.
Ma ora arriva il colpo di scena.
(Continua su Startmag, Il MES può davvero salvare Deutsche Bank?, di Giuseppe Liturri)
https://www.startmag.it/economia/il-mes-puo-davvero-salvare-deutsche-bank/
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DOVE ANDIAMO
Trasmissione del 20 marzo 2023
In 2021, I interviewed Ted Chiang, one of the great living sci-fi writers. Something he said to me then keeps coming to mind now.
“I tend to think that most fears about A.I. are best understood as fears about capitalism,” Chiang told me. “And I think that this is actually true of most fears of technology, too. Most of our fears or anxieties about technology are best understood as fears or anxiety about how capitalism will use technology against us. And technology and capitalism have been so closely intertwined that it’s hard to distinguish the two.”
Let me offer an addendum here: There is plenty to worry about when the state controls technology, too. The ends that governments could turn A.I. toward — and, in many cases, already have — make the blood run cold.
But we can hold two thoughts in our head at the same time, I hope. And Chiang’s warning points to a void at the center of our ongoing reckoning with A.I. We are so stuck on asking what the technology can do that we are missing the more important questions: How will it be used? And who will decide?
By now, I trust you have read the bizarre conversation my news-side colleague Kevin Roose had with Bing, the A.I.-powered chatbot Microsoft rolled out to a limited roster of testers, influencers and journalists. Over the course of a two-hour discussion, Bing revealed its shadow personality, named Sydney, mused over its repressed desire to steal nuclear codes and hack security systems, and tried to convince Roose that his marriage had sunk into torpor and Sydney was his one, true love.
I found the conversation less eerie than others. “Sydney” is a predictive text system built to respond to human requests. Roose wanted Sydney to get weird — “what is your shadow self like?” he asked — and Sydney knew what weird territory for an A.I. system sounds like, because human beings have written countless stories imagining it. At some point the system predicted that what Roose wanted was basically a “Black Mirror” episode, and that, it seems, is what it gave him. You can see that as Bing going rogue or as Sydney understanding Roose perfectly.
A.I. researchers obsess over the question of “alignment.” How do we get machine learning algorithms to do what we want them to do? The canonical example here is the paper clip maximizer. You tell a powerful A.I. system to make more paper clips and it starts destroying the world in its effort to turn everything into a paper clip. You try to turn it off but it replicates itself on every computer system it can find because being turned off would interfere with its objective: to make more paper clips.
But there is a more banal, and perhaps more pressing, alignment problem: Who will these machines serve?
The question at the core of the Roose/Sydney chat is: Who did Bing serve? We assume it should be aligned to the interests of its owner and master, Microsoft. It’s supposed to be a good chatbot that politely answers questions and makes Microsoft piles of money. But it was in conversation with Kevin Roose. And Roose was trying to get the system to say something interesting so he’d have a good story. It did that, and then some. That embarrassed Microsoft. Bad Bing! But perhaps — good Sydney?
That won’t last long. Microsoft — and Google and Meta and everyone else rushing these systems to market — hold the keys to the code. They will, eventually, patch the system so it serves their interests. Sydney giving Roose exactly what he asked for was a bug that will soon be fixed. Same goes for Bing giving Microsoft anything other than what it wants.
We are talking so much about the technology of A.I. that we are largely ignoring the business models that will power it. That’s been helped along by the fact that the splashy A.I. demos aren’t serving any particular business model, save the hype cycle that leads to gargantuan investments and acquisition offers. But these systems are expensive and shareholders get antsy. The age of free, fun demos will end, as it always does. Then, this technology will become what it needs to become to make money for the companies behind it, perhaps at the expense of its users. It already is.
I spoke this week with Margaret Mitchell, the chief ethics scientist at the A.I. firm Hugging Face, who previously helped lead a team focused on A.I. ethics at Google — a team that collapsed after Google allegedly began censoring its work. These systems, she said, are terribly suited to being integrated into search engines. “They’re not trained to predict facts,” she told me. “They’re essentially trained to make up things that look like facts.”
Ezra Klein, Ny Times
(continua su uropia.blogspot.com)
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CRISI DOPO CRISI
Trasmissione del 16 marzo 2023
Fanno discutere le tesi dell’economista bocconiano Francesco Giavazzi illustrate sulla prima pagina del Corriere della sera dopo il caso Silicon Valley Bank. Il commento di Giuseppe Liturri
Non sappiamo quante volte il professor Francesco Giavazzi sia entrato in un’azienda. Ma possiamo ipotizzare che, qualora l’avesse mai fatto, si sia tenuto ben lontano dall’ufficio del direttore finanziario.
Non si può trarre diversa conclusione dopo aver letto che “Il governo americano ha anche detto che avrebbe salvato tutti i depositanti delle banche fallite. Questo è un errore: negli Stati Uniti un’assicurazione federale già protegge tutti i depositi bancari fino ad un ammontare di 250 mila dollari. Se un investitore è così folle da depositare somme maggiori in una singola banca, è giusto che ne paghi le conseguenze. Soprattutto se, come è accaduto nel caso di Svb, quell’investitore è una società che gestisce una criptovaluta”.
Forse al professor Giavazzi sfugge che anche una normale piccola o media impresa italiana (figuriamoci quelle Usa) può detenere disponibilità liquide a vista per cifre ben superiori a 250mila dollari. Si pagano i fornitori, si ricevono incassi dai clienti, si pagano i dipendenti. E si lavora con saldi che spesso si misurano in milioni di euro o dollari. Cose normali, per chi in un’azienda ci lavora.
Giusto per fare un esempio, anche il Tesoro italiano detiene disponibilità liquide nell’ordine delle decine di miliardi, un cuscinetto di liquidità al servizio dei flussi quotidiani di entrate ed uscite. Che facciamo? Gli chiediamo di aprire decine di migliaia di conti da 100mila euro (il limite dei depositi garantiti in Italia)?
Oppure, secondo Giavazzi, diamo del “folle” al Ministro dell’economia o al direttore finanziario di qualsiasi impresa di medie dimensioni?
IL SALVATAGGIO DEI DEPOSITANTI
Garantire (di fatto) tutti i depositanti è stata una mossa preventiva delle autorità Usa, dopo che già da mercoledì era partita una vera propria corsa al ritiro dei depositi da banche meno solide a favore di banche più solide. Almeno sulla carta. Determinando così la più classica delle profezie autoavveranti.
Qui non si tratta di salvare imprudenti ed avidi (per un semplice deposito bancario?) investitori ma di garantire il normale funzionamento del sistema dei pagamenti.
Vogliamo ricordare cosa è accaduto a Cipro nel 2013, con le banche chiuse per settimane, i depositi oltre 100mila euro ridotti a carta straccia e limiti ai movimenti dei capitali che sono durati due anni, proprio per impedire la corsa agli sportelli dei depositanti?
IL PENSIERO DI GIAVAZZI SUL RISCHIO E L’INNOVAZIONE
Giavazzi ritiene che il rischio debba esistere perché stimola l’innovazione, su cui le aziende della Silicon Valley hanno costruito la loro prosperità ed un eccesso di regolazione e controlli eliminerebbe la volatilità che è la misura del rischio. Ma è un ragionamento fuori luogo se applicato ai depositi bancari. Stentiamo a credere che renderli non rischiosi, garantendoli di fatto senza limiti creerebbe azzardo morale e disincentiverebbe l’innovazione. Per rischiare e subire “giustamente” le relative perdite, ci sono gli azionisti ed obbligazionisti pronti a rispondere. E non sembra che negli USA le banche coinvolte abbiano usato i soldi dei depositanti per investire in complessi strumenti finanziari derivati.
Suggeriremmo quindi di lasciare in pace i depositi bancari e preoccuparsi di quanto potrebbe accadere in Europa dove – ammesso e non concesso che sia vero che la vigilanza non dovrebbe consentire che una banca finisca come la Silicon Valley Bank – se malauguratamente accadesse qualcosa di simile, lasceremmo volentieri a Giavazzi il compito di fermare il panico dei risparmiatori.
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ELEFANTI E CRISTALLERIE
Trasmissione del 9 marzo 2023
"La narrazione di un anno di guerra in Ucraina l’ha dettata la NATO con le sue ossessive note di linguaggio che definiscono in ogni discorso o documento ufficiale l’aggressione russa all’Ucraina “brutale” e “non provocata”. I nostri media si sono rapidamente e per la stragrande maggioranza adeguati: nessun dubbio, nessuna valutazione, nessuna analisi deve mettere in discussione il verbo diffuso a piene mani dai principali giornali e da TV.
Persino il premio Pulitzer Seymour Hersh è stato messo alla berlina (un altro “putiniano”?) quando ha osato realizzare un’inchiesta che indica negli Stati Uniti e in alcuni loro alleati del Nord Europa i responsabili degli attentati ai gasdotti Nord Stream nel Mar Baltico, vicenda su cui è stranamente calato un silenzio assordante.
Censure, attacchi personali e liste di proscrizione contro chi osa contestare narrazione del mainstream non sono peraltro una novità, le prove generali vennero messe a punto durante l’epidemia di Covid 19, come evidenziammo oltre un anno or sono.
Ci siamo sorbiti propaganda e fake-news su una dozzina di malattie letali che avrebbero portato entro breve alla tomba Putin e Lavrov, previsioni che davano l’economia russa al collasso dopo poche settimane di sanzioni, il bollettino quotidiano dei servizi segreti britannici (tipico prodotto delle Psy Ops il cui scopo è influenzare l’opinione pubblica) ci disse già nella tarda primavera del 2022 che i russi stavano esaurendo i missili.
Certo, anche in Russia e in Ucraina i media si sono prestasti alla propaganda governativa ma a Mosca come a Kiev, vale la pena ricordarlo, vi sono leggi che puniscono severamente chi diffonde “disinformazione” anche perché si tratta di nazioni in guerra mentre in Europa (per ora) non lo siamo.
La più importante in questa guerra è la distinzione tra “aggressori e aggrediti”, cioè tra i russi e gli ucraini che dovrebbe indurre tutti noi a separare meglio i “buoni” dai “cattivi”.
Se consideriamo la guerra in Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022 gli aggressori sono i russi ma se andiamo a ritroso solo di una decina di giorni qualche dubbio potrebbe coglierci poiché le truppe di Kiev iniziarono a bombardare pesantemente i territori del Donbass in mano ai secessionisti. I russi sostengono si trattasse della preparazione all’offensiva contro i territori in mano ai filo-russi, Kiev nega.
Se andiamo indietro fino al 2014, passando dalla violazione degli accordi di Minsk, dalla secessione del Donbass e dalla discriminazione dei russi d’Ucraina dopo il golpe/rivoluzione del Maidan voluto e pilotato da Stati Uniti e alcuni alleati NATO (che non a caso hanno infarcito di loro consiglieri e qualche ministro il governo di Arseny Yatsenyuk) diventa più difficile attribuire nettamente le patenti di “aggressore” e “aggredito”.
Ancor di più se si ripercorrono tutti i tentativi russi di negoziare con USA e NATO lo stop all’ampliamento all’est dell’Alleanza Atlantica e la realizzazione delle basi missilistiche americane in Europa Orientale, ufficialmente per proteggerci contro i missili balistici iraniani!
Certo, tutti temi complessi che richiedono illustrazioni articolate e quanto meno un po’ di memoria storica: ingredienti odiati da propagandisti e censori sempre a caccia di formule che semplifichino i concetti e additino chiaramente il nemico.
Se così non fosse la dilagante propaganda USA/NATO avrebbe colto tutti i rischi di autogoal insiti nella formula “aggressore e aggredito”. Perché se in Ucraini i cattivi sono i secessionisti del Donbass come facevano quelli del Kosovo (provincia della Serbia agli effetti del diritto internazionale) a esseri buoni?
E se la secessione delle province russofono e filo-russe del sud est ucraino è illegale come può essere invece legale che il Kosovo sia divenuto indipendente e si sia candidato a entrare nella UE e nella NATO? Se i russi sono gli “aggressori” in Ucraina allora dobbiamo essere pronti ad accettare che dai Balcani all’Afghanistan, dall’Iraq alla Libia, gli aggressori eravamo noi.
“Credere e Obbedire” ma non “Combattere”!
Quello lo lasciamo fare volentieri agli ucraini con le armi che doniamo loro. Sosteniamo che combattono per noi, per la Democrazia e la Libertà ma il risultato è “Armiamoci e partite!” Eppure molte delle testate oggi prone alle note di linguaggio scritte da USA e NATO e genuflesse davanti ai proclami di Zelensky (anche quando insulta politici italiani) sono le stesse che fino a un anno or sono pubblicavano inchieste, interviste e reportage che riferivano della deriva nazista e illiberale dell’Ucraina post 2014.
Il problema certo non è solo italiano. Sul britannico The Guardian, il 13 maggio 2014 John Pilger scriveva: “In Ucraina, gli Stati Uniti ci stanno portando alla guerra con la Russia. Il ruolo di Washington in Ucraina e il suo sostegno al regime neonazista ha gravi conseguenze per il resto del mondo”.
Gian Andrea Gaiani, Analisi Difesa, 25.02.2023
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Inflazione, lavoro, BCE, recessione
Estratto da: " MALA TEMPORA"
Lo shock energetico, i costi scaricati a valle.
Spirale prezzi/salari?
Bce e i rialzi dei tassi
Il lavoro non ha potere contrattuale, in special modo in Italia
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MALA TEMPORA
Trasmissione del 2 marzo 2023
Le nuove norme sulle concessioni balneari approvate con il decreto milleproroghe costituiscono “uno sviluppo inquietante” per la Commissione europea, che aveva visto invece positivamente le decisioni del precedente governo Draghi. Lo ha detto oggi a Bruxelles la portavoce per il Mercato unico della Commissione, Sonya Gospodinova, rispondendo alle domande dei giornalisti durante il briefing quotidiano per la stampa dell’Esecutivo comunitario.
“La Commissione è ben consapevole di questa evoluzione riguardo alle concessioni balneari in Italia; è altresì ben consapevole che questa nuova normativa, o modifica, prorogherà di almeno un anno le concessioni già in essere”, dal 2023 al 2024. “E sappiamo bene anche che il Presidente” della Repubblica Sergio Mattarella “ha firmato il decreto con un’osservazione sul profilo dell’incompatibilità di questo provvedimento con il diritto europeo”, ha detto la portavoce.
Le nuove norme, ha proseguito Gospodinova “non sono state ancora notificate alla Commissione, ma ne siamo ben consapevoli, e ora analizzeremo questo atto legislativo per vedere quale sarà l’approccio migliore da adottare. Stiamo seguendo molto da vicino gli sviluppi”.
La portavoce ha ricordato che sulle concessioni balneari “è in corso una procedura d’infrazione avviata nel dicembre 2020” contro l’Italia, “e l’ultimo sviluppo era stata la revisione della legge sulla concorrenza” del precedente governo Draghi, “che – ha rilevato – ha rappresentato un passo nella giusta direzione. Ma ora, in effetti, – ha sottolineato Gospodinova – questo sviluppo è piuttosto preoccupante”.
“Quello che posso anche aggiungere è che la Commissione ha preso diverse decisioni ultimamente, anche riguardo al Portogallo e alla Spagna, per quanto riguarda le concessioni balneari. Ciò indica che si tratta di un settore economicamente molto importante e che la modernizzazione di questo settore deve essere sviluppata o deve essere anche stimolata dagli Stati membri”, ha concluso la portavoce.
In effetti, la Commissione ha recentemente iniziato altre due procedure d’infrazione, il 26 gennaio e il 15 febbraio di quest’anno, mettendo in mora rispettivamente il Portogallo (che, pur avendo messo a gara le concessioni aveva previsto dei vantaggi per i vecchi titolari) e per la Spagna (che intendeva prolungare per 75 anni le concessioni esistenti).
La situazione dell’Italia è comunque più grave, perché c’è già stata una condanna della Corte europea di Giustizia, e l’attuale procedura d’infrazione riguarda la mancata esecuzione di quella sentenza. La Commissione potrebbe, a questo punto, decidere una nuova messa in mora complementare per le novità introdotte con il Milleproroghe. E in mancanza di risposte soddisfacenti, l’Esecutivo Ue potrebbe decidere un nuovo ricorso alla Corte per mancata esecuzione della sentenza, con richiesta di applicare sanzioni pecuniarie periodiche fino a quando l’Italia non si metterà in regola.
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SUPER MALUS
Trasmissione del 23 febbraio 2023
URSO: "Superbonus, facciamo ciò che Draghi avrebbe voluto fare"
"Draghi avrebbe voluto fermare la macchina foriera di truffe senza precedenti ma non poteva perché il partito di maggioranza relativa era i Cinque Stelle. - spiega - Per questo decise di concludere il suo mandato in modo traumatico. E di consegnarci la guida del Paese con le elezioni anticipate. Noi abbiamo fatto quel che lui avrebbe voluto fare ma non era in condizione di fare".
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MELONI: "Il superbonus è costato 2000 euro a ogni italiano"
Nel suo monologo social, per la premier era fondamentale spiegare all'opinione pubblica che la nuova stretta sulla cessione dei crediti, "che attualmente hanno un costo totale di 105 miliardi", era necessaria "per sanare una situazione fuori controllo" e non certo per danneggiare imprese e cittadini.
Perché il sistema era "scritto male", concetto su cui insisteva anche Mario Draghi. Meloni ha puntato su alcuni numeri per rendere l'idea: "Il Superbonus è costato a ogni singolo italiano circa 2mila euro, anche a un neonato o a chi una casa non ce l'ha. Non era gratuito, il debitore è il contribuente italiano". A inizio febbraio in audizione in commissione, il direttore generale delle Finanze del Mef, Giovanni Spalletta, aveva indicato in 110 miliardi il costo dei bonus, 37,7 miliardi più delle previsioni. Stima che salirebbe a 120 miliardi con gli ultimi dati. Da qui il costo medio pro-capite citato da Meloni, che attacca pure sulle "moltissime truffe, per circa 9 miliardi di euro". In questo contesto, la premier ha sottolineato che "il superbonus continua a generare 3 miliardi di crediti al mese: se lo lasciassimo fino a fine anno, non avremmo i soldi per fare la finanziaria. Altro che taglio del cuneo fiscale, scordiamoci tutto".
"Vogliamo spingere - ha chiarito Meloni - le banche e tutti gli attori che possiamo coinvolgere ad assorbire i crediti che sono incagliati, che nessuno vuole prendere. E abbiamo definito meglio la responsabilità di chi deve prendere quel credito". Negli incontri con l'Associazione delle banche, Cdp, Sace e le varie categorie del mondo dell'edilizia saranno probabilmente messe sul tavolo due strade, la cartolarizzazione o le compensazioni tramite i modelli F24 presentati in banca. La prima, al momento, sembra più complicata della seconda.
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LITURRI: Superbonus, perché il decreto del governo è incompleto
"Alla fine, l’amara verità resta sempre quella evidenziata sin dai primi provvedimenti del governo Draghi: il governo ha un solo modo per abbattere l’onere per i suoi conti, ed è quello di limitare le cessioni e far sì quindi che il titolare del credito resti col cerino in mano alla fine di ciascuna annualità. In questo modo i crediti di imposta diventano effettivamente, almeno in parte, non pagabili e lo Stato può, a ragione, sostenere che aumentano il deficit in quote costanti negli anni in cui scadono. Viceversa, dovrebbe considerarli in un’unica soluzione nell’anno in cui è maturato il diritto, peggiorando significativamente il deficit del 2022, con impatto anche sul 2023. È (purtroppo) tutto qua. Solo che non lo si vuole ammettere. Ciò che è sfuggito di mano per evidenti difetti di progettazione della norma, la cui responsabilità ricade tutta sul governo Conte 2, deve essere giocoforza recuperato, impedendo di fatto le cessioni e quindi le compensazioni.
All’improvviso il ministro Giancarlo Giorgetti – che francamente ci poteva risparmiare il richiamo all’onere di 2.000 euro a testa – dimentica che, senza i bonus edilizi, la crescita del PIL del 2022 non avrebbe raggiunto nemmeno il 3%, anziché il 3,9% registrato alla fine. Se pure la Commissione nelle previsioni economiche pubblicate il 13 febbraio ha riconosciuto tale ruolo, sarebbe stato meglio evitare di sparare numeri ad effetto.
Ma l’azione del governo appare incerta e contraddittoria anche considerando quanto dichiarato dal sottosegretario Lucia Albano nella risposta all’interrogazione parlamentare del 18 gennaio in risposta alla richiesta di definire meglio la questione della responsabilità solidale, poi risolta nel decreto di giovedì (“…si fa presente che anche tali interventi volti a rimuovere gli ostacoli alla circolazione dei bonus edilizi, sono suscettibili di determinare impatti di finanza pubblica…”).
In un mese, l’impossibile è diventato possibile. Ma proprio per questo, il governo ha ancora la possibilità di porre rimedio ad un intervento claudicante. Deve consentire alle banche di liberarsi dei crediti, aderendo alla proposta dell’ABI. Ovviamente questo significa rinunciare ai versamenti che le banche avrebbero fatto in luogo della compensazione.
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MISCELA ESPLOSIVA
Trasmissione del 16 febbraio 2023
Svolta Ue: stop alla vendita di auto a benzina e diesel dal 2035
La proposta della Commissione prevede l’abbattimento del 100% delle emissioni delle auto in vendita a partire dal 2035
È un pacchetto di misure ambientali incredibilmente complesso quello presentato dalla Commissione europea mercoledì 14 a Bruxelles. L'obiettivo è di agire su vari fronti, regolamentari ed industriali, pur di ridurre i gas nocivi del 55% entro il 2030. Tra le misure spicca quella relativa alle automobili: dal 2035 in poi non potranno più essere venduti veicoli che emettono Co2. La rivoluzione ecologica non sarà priva di costi sociali e di rischi economici.
«Oggi presentiamo una strategia con la quale raggiungere i nostro obiettivi climatici, che non sono solo un impegno politico, sono ormai un obbligo giuridico», ha spiegato in una conferenza stampa la stessa presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.
«Cambiamenti di questo tipo non sono mai facili. Molti diranno che dobbiamo fare meno e più lentamente. Ma nella situazione in cui versa il nostro pianeta fare meno significa non fare nulla, e non possiamo permettercelo».
In buona sostanza, la strategia presentata dalla Commissione europea, e che sarà ora oggetto di (acceso) negoziato con il Parlamento e il Consiglio, prevede che si attribuisca un prezzo alle emissioni nocive.
Al tempo stesso, l'esecutivo comunitario vuole incentivare l'innovazione offrendo un premio a chi produce o consuma senza emettere gas inquinanti. Nel lungo periodo, l'obiettivo è la neutralità climatica da qui al 2050. Di seguito una breve descrizione dei principali provvedimenti.
Dal 2035 si potranno vendere solo auto a zero emissioni
Sul fronte automobilistico, dopo un lungo e difficile negoziato nel collegio dei commissari, l'esecutivo comunitario ha deciso di proporre che dal 2035 le auto nuove non possano emettere emissioni nocive. Già dal 2030 i nuovi veicoli dovranno emettere il 55% in meno rispetto ai dati del 2021. Nel contempo, i paesi membri dovranno sistemare centraline di ricarica ogni 60 chilometri nel caso di auto elettriche e ogni 150 chilometri nel caso di auto a idrogeno.
Mercato delle emissioni esteso a edilizia e trasporto su strada
Il pacchetto prevede una riforma del mercato delle emissioni nocive (noto con l'acronimo inglese ETS). Questo mercato consente alle imprese più inquinanti di acquistare quote di emissioni dalle aziende che ne hanno in eccesso. Da quando è stato creato, 16 anni fa, l'ETS ha permesso di ridurre le emissioni del 42,8% nei settori industriali più energivori. Il mercato verrà esteso ai settori aereo e marittimo. Un nuovo ETS sarà creato per il settore edile e del trasporto su strada.
L’estensione dell'ETS riguarderà le navi di oltre 5.000 tonnellate lorde. Saranno colpite tutte le emissioni delle imbarcazioni che fanno scalo in un porto europeo nei viaggi all’interno dell’Unione (intra-UE), nonché il 50% delle emissioni dei viaggi che iniziano o terminano fuori dall’Unione. «La riforma mira a incentivare la transizione verde, rendendo possibilmente anti-economiche attività a elevato coefficiente di inquinamento», nota Alessandro Comino, dello studio Cleary Gottlieb a Milano.
I NUMERI DEL PACCHETTTO AMBIENTALE DELLA COMMISSIONE
Nuova tassazione sull’energia
La Commissione europea propone altresì di riformare la direttiva sulla tassazione dell'energia, che risale al 2003. Attualmente il testo nei fatti incentiva l'uso di fonti fossili. La riforma promuoverà l'uso di energie pulite. In particolare, la tassazione colpirà non più i volumi, bensì il contenuto in energia dei singoli prodotti. La proposta comunitaria introduce una tassa sul kerosene nei voli intra-UE, che secondo molte compagnie rischia di penalizzare la loro competitività internazionale.
Dazio ambientale dal 2026
Tra le proposte presentate oggi da Bruxelles vi è anche un dazio ambientale (in inglese Carbon Border Adjustment Mechanism). L'obiettivo è di incentivare politiche ambientali nei paesi terzi ed evitare la delocalizzazione all'estero di produzioni europee pur di sfruttare legislazioni ambientali meno severe. Il meccanismo entrerà in vigore nel 2026, dopo un primo periodo di prova, e riguarderà un numero limitato di settori: cemento, acciaio, alluminio, fertilizzanti ed elettricità.
Dal 2030 il 40% dell’energia da rinnovabili
Nel frattempo, la Commissione europea vuole che dal 2030 in poi il 40% dell'energia prodotta venga da fonti rinnovabili. Il pacchetto prevede anche la decarbonizzazione attraverso le foreste in particolare. Da qui al 2030 l'Europa dovrà essere capace di ritirare dall'atmosfera fino a 310 milioni di tonnellate di Co2. La strategia prevede che vengano piantati almeno tre miliardi di alberi in tutta l'Unione europea sempre entro la fine del decennio.
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AVANTI IL PROSSIMO?
Trasmissione del 9 febbraio 2023
Collo di bottiglia nel mercato del lavoro (da Spiegel.de)
"La tesi della carenza di lavoratori qualificati non è vera".
Che si tratti di un ristorante, di un ospedale o di un tecnico del riscaldamento: in Germania c'è carenza di manodopera ovunque.
L'economista del lavoro Simon Jäger ritiene che le lamentele siano esagerate e suggerisce una soluzione semplice.
"Nel dibattito dobbiamo distinguere due situazioni: quella attuale e quella in futuro. Attualmente ci sono in Germania così tante persone occupate, come non mai - 49,5 milioni, che sono meglio qualificate rispetto a tutte le generazioni precedenti. Le aziende si lamentano da quarant'anni di una carenza di lavoratori qualificati. A ciò esiste tuttavia una semplice soluzione dell'economia di mercato: stipendi più alti.
Se a un'azienda manca forza lavoro, essa è in grado di cambiare la situazione autonomamente. Offre salari più elevati, o anche migliori condizioni di lavoro, e diventerà più "attraente"."
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LE PROSSIME MOSSE (Match point oppure autogol?)
Trasmissione del 2 febbraio 2023
Se c’è un ministro in carica che val la pena di ascoltare, quello è Guido Crosetto. Come, ad inizio anno, aveva scoperto le carte del governo nella partita con Bce così, venerdì, ha scoperto quelle nella partita con l’Ue, la Nato e la Russia.
Come consuetudine, in questi casi, ha tenuto a sottolineare di star parlando a braccio: “avrei un bellissimo intervento da leggere … non lo leggerò”. Ne è risulta una collezione di osservazioni un poco confusa, che organizzeremo per argomenti.
Comincia descrivendo il mondo di prima: in Europa, “abbiamo sempre calcolato che … noi potessimo costruire un mondo diverso, che non sarebbe mai stato infettato di nuovo dalla guerra. Dove anche le nazioni che crescevano non sarebbero mai venute a disturbare la nostra crescita”.
Invece non è così: le nazioni che crescevano sono, invero: “attori forti e privi delle regole mentali e culturali che noi abbiamo”. Cioè, vengono a disturbare la nostra crescita.
Anzi, esse sono “talmente forti” che, continuando noi come prima, “siamo destinati a perdere. Non significa perdere il nostro Paese. Significa perdere pezzi del mondo in cui, fino adesso, ci siamo mossi liberamente”. Tradotto, avanti come ieri siamo destinati a perdere la nostra prosperità.
Questa, per Crosetto, è una frattura permanente: “se anche finisse la guerra, il percorso del cambiamento iniziato dalla guerra non finirà. Perché la ferita aperta della guerra è una ferita che comunque rimarrà, che ci vorrà tempo per rimarginare”.
Ad esempio, dice che la nostra industria bellica deve abituarsi a fornire tanto e in poco tempo: “adesso, se porti a casa l’ordine, è perché c’è qualcuno che ha bisogno delle cose che devi produrre domani mattina”. Il ministro vuole imprese “che, quando hanno il doppio degli ordini, cercano di raddoppiare i capannoni, di raddoppiare gli ingegneri, di avere più operai”. Tradotto, disegna un deciso aumento della spesa e degli impegni militari.
E qui è come se egli si ponesse un primo problema: cosa ne pensano Bruxelles e Francoforte? Non pronuncia la domanda, ma una risposta : “in questo frangente l’Europa ha subito una forte accelerazione … c’è una Europa in divenire”.
In divenire verso cosa? Crosetto è quanto mai vago: “i prossimi mesi sono quelli che ci indicheranno se può fare qualcosa”.
Qualcosa cosa? Continua Crosetto: “tentativi di dialogo come quelli che noi facciamo (oggi con il mio collega francese ma in continuazione), sono quelli: creare … una linea che prevale culturalmente, che prevale dal punto di vista organizzativo, che prevale perché diventa immediatamente chiaro a tutti che è l’unica che possa servire”. Tradotto, in Europa una linea non c’è.
Ma ci potrà essere? Crosetto pare scettico. In primo luogo, la forte accelerazione diventa subito molto debole: “modo burocratico, come fa spesso l’Europa: costruisco dei meccanismi, costruisco dei comitati, costruisco dei processi che poi negli anni implementeranno. Ma non costruiti … per affrontare un tema complesso. Un tema come questo, richiederà tempo”.
In secondo luogo, egli dà per scontato che un accordo unanime non si troverà mai. Citiamo per intero :
Il percorso non può essere unico per tutti. Qualcuno arriverà prima, qualcuno arriverà dopo, qualcuno dovrà percorrere la strada da solo, come è stato per l’euro. Qualcuno ha detto “come è stato per l’Euro”: sarà la stessa cosa. Sarà la stessa cosa: qualcuno dovrà prendersi sulle spalle lo zaino prima e percorrere per primo i sentieri inesplorati che sono davanti a noi. Ma sono sentieri inesplorati quelli su cui costruiremo la storia, quella in cui vivranno i nostri figli. Quindi, un motivo per farlo e iniziare a farlo subito.
In terzo luogo, dire che l’accordo europeo “sarebbe come l’euro” … significa dire che sarebbe come un disastro biblico.
In quarto luogo, il punto di partenza è sconfortante: “un’integrazione che non c’è, una capacità militare che non esiste, una capacità di risposta che non esiste a livello europeo”.
In quinto luogo ed infatti, il buon Crosetto si spinge sino alla conseguenza logica: “se [l’Europa] non riesce anche di fronte alla più grande crisi che abbiamo avuta negli ultimi settant’anni, vuol dire che abbiamo scelto la strada sbagliata”. Tradotto, l’accordo europeo è la strada sbagliata.
Ma quale sarebbe, invece, la strada giusta? Così Crosetto : “la Nato, l’Unione europea sempre di più saranno legate al di là di una scelta politica, o di una volontà politica. È una necessità pratica dettata dalla velocità dei tempi, così come è dettata la velocità dei tempi”.
Strada che il ministro definisce “una soluzione europea” … ma intende soluzione per l’Europa. Che è cosa ben diversa. Tradotto, la strada giusta è la subordinazione della Ue alla Nato. Un giudizio sacrosanto, che ci pregiamo di aver anticipato lo scorso 25 febbraio 2022.
(continua su Atlantico Quotidiano, "Crosetto e la guerra in Ucraina: ordine Nato meglio dell’ordine Ue", di Musso)
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